Per un’impresa, reshoring significa riportare in patria le attività produttive precedentemente delocalizzate in Paesi esteri. Negli anni ottanta e novanta, varie aziende Europee e Nord Americane hanno spostato le proprie fabbriche in Asia, Africa e Sud America (off-shoring), e lì, per anni, hanno realizzato prodotti a basso costo destinati a servire i ricchi mercati occidentali, ottenendo così maggiori profitti. Le stesse aziende stanno ora intraprendendo il percorso inverso, riportando gli stabilimenti produttivi in patria, in un processo caratterizzato da due fasi: la prima relativa alle funzioni produttive vere e proprie, i reparti di trasformazione delle materie prime, di montaggio e di confezionamento dei prodotti finiti. La seconda fase coinvolge invece le funzioni di gestione della produzione, la pianificazione, la logistica e la qualità, necessarie a rimpatriare anche il know-how più strettamente legato alle attività produttive. Un ultimo aspetto riguarda la misura in cui l’unità produttiva estera viene rimpatriata, in base alla quale si possono individuare due casi: reshoring parziale e reshoring totale. Se il mercato di sbocco dei prodotti realizzati all’estero è il solo mercato d’origine, non c’è motivo di mantenere un’unità delocalizzata e, quindi, il reshoring è totale. Viceversa, se la produzione estera è destinata a servire anche gli stessi mercati esteri dove i prodotti vengono realizzati, allora l’unità produttiva resta operativa come sede locale e il reshoring è parziale.
Il reshoring è in corso da qualche anno ormai: è stato uno dei cavalli di battaglia di Trump (vedi Made in America) ed è al centro della pianificazione strategica delle multinazionali, l’80% delle quali ha già redatto dei piani di rimpatrio delle produzioni (dati Bank of America). Come quasi tutti i mega-trend socio-economici, anche il reshoring sta subendo un’accelerazione vertiginosa alimentata dal micro-additivo più potente in circolazione: il COVID-19. La rottura delle catene di fornitura internazionali durante la pandemia, ha forzato le imprese a prendere in considerazione modelli produttivi alternativi, per la reale necessità di correre ai ripari dal rischio di perdere fatturato per l’incapacità di consegnare i propri prodotti ai propri clienti.
Quindi, un po’ per la pandemia e un po’ per strategie proprie, nei Paesi più industrializzati, al reshoring ci stanno pensando in molti. Trenta anni fa la rincorsa alla manodopera a basso costo ha innescato l’off-shoring, offrendo alle imprese un vantaggio competitivo in termini di minori costi produttivi. Oggi gli slogan politici fanno da cassa di risonanza mediatica al reshoring, ma non ne determinano il successo, che verrà misurato sulla base di un unico parametro: la competitività delle imprese sui mercati dopo il rimpatrio degli stabilimenti produttivi. Per mantenere alto il livello di competitività, in Paesi dove la manodopera è più costosa, diventa quindi fondamentale concentrare tutti gli sforzi e tutte le risorse a disposizione per massimizzare l’efficienza produttiva e ridurre i costi operativi.
A questo scopo, il primo passo è tipicamente orientato alla riduzione dei costi strettamente legati alle attività produttive. Perché caricare manualmente i pezzi meccanici da lavorare su un tornio quando lo può fare un braccio robotizzato? Chi mi costringe ad occupare un intero capannone di scaffali stipati di componenti, quando un magazzino automatizzato mi permetterebbe di ridurre la superficie occupata e i tempi di prelievo? Robotizzazione e automazione sono le prime voci in agenda in tutte le realtà manifatturiere.
In un secondo momento si passa all’ottimizzazione delle attività di ufficio. Che valore offro ai miei clienti inserendo manualmente nel mio gestionale i loro ordini trasmessi via email, quando potrebbero tranquillamente farlo autonomamente se mettessi loro a disposizione un portale su internet? Per quale motivo archiviare pile di carta quando la gestione documentale elettronica mi permette di risparmiare spazio, tempi di accesso e tempi di elaborazione? In questo caso la parola d’ordine è trasformazione digitale e i benefici che porta sono immediati in tutte le aree aziendali.
Le vere ricadute strategiche, però, si ottengono assicurandosi che tutti gli interventi effettuati nei diversi ambiti aziendali si integrino e diventino l’uno il moltiplicatore dell’altro. Molto spesso, agli investimenti in tecnologia e macchinari, non corrispondono altrettante risorse allocate per massimizzare l’impatto dei nuovi strumenti introdotti, risultato ottenibile unicamente intervenendo sull’organizzazione, sui processi e sulle persone. Solo attraverso un’attenta analisi dei processi che governano il funzionamento dell’azienda è possibile eliminare gli sprechi e le inefficienze, che sono la vera fonte dei costi extra che l’azienda deve sostenere.
I modelli organizzativi guidano le azienda nel percorso di reshoring, collegando l’automazione, la digitalizzazione e i processi, con l’obiettivo di garantire stabilità all’impresa e incrementare il vantaggio competitivo nei confronti della concorrenza.
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